Piccole considerazioni su certa musica d’Islanda e amici che non ci sono più.

I stab up the clouds
Cornered crowded cows
Won’t ever see the sky

Random Haiku Generator, Sin Fang (Sóley + Örvar Smárason)

Intimistica, autarchica, alternativa, la musica di Sóley Stefánsdóttir mi parla da anni: almeno sei.

Insomma, ben prima del mio lungo viaggio nel Nord Europa (Finlandia), la mia passione per il fuori dal comune presente nel settentrione di questa fetta di Occidente mi ha investita e conquistata.

Per dire, queste melodie così liquide e fresche surclassano ancora oggi molte altre cose che le mie orecchie hanno negli anni udito – e c’era/c’è forse da aspettarselo?
Quella di Sóley, infatti, è una poesia lucida che si avvalla di una musica profonda come gli abissi del mare, dolce come i flutti lungo Reynisfjara, e calda e vaporosa come i fumi dei geyser di Haukadalur.

Cantautrice e polistrumentista abile, nonché paroliere deliziosa e crudele al contempo, Sóley Stefánsdóttir ha inanellato successi su successi oltreoceano. Qua, in Italia (anche se ora sono nel Regno Unito, ma chissene), ce la siamo filata solo io e un mio amico che scriveva rap truce e che purtroppo ora è sepolto sotto tre metri di terra.

Così va la vita, direbbe Billy Pilgrim in “Mattatoio n.5”.

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I see my pretty face in his old eyes
I listen to our blood run side by side
I throw my hands to you and run away
It’s so cold, so dangerous that I can’t stay

Pretty Face, Sóley

Il mio amico, tuttavia, non aveva gli occhi di chi ha visto il mondo, ma aveva lo sguardo da ragazzetto che era; poi, spada ficcata su per il braccio, dritta in vena, ha pensato bene di togliersi quel suo sorriso sghembo dal volto. I suoi occhi non sono mai diventati quelli di un adulto.

Quanto è triste questa storia? Non lo so. È difficile quantificare il concetto di tristezza, ma se mi metto una canzone di Sóley sparata nelle orecchie, mi sembra di potercela fare.

La tristezza diventa una nota stridula, un controtempo, o un vocalizzo trascinato su e giù per scale infinite. Io sto lì, pensierosa, e senza troppe cerimonie mi lascio cascare una lacrima tonda e salata da un angolo dell’occhio e la lascio fare: quella solca le piccole alture del mio volto, fino a giungere al delta delle labbra.

We will put her in two graves
Side by side

We Will Put Her In Two Graves, Sóley

Ha ragione Sóley: una volta che una persona muore, la seppelliamo in due posti diversi, uno affianco all’altro. Da una parte, la caliamo dentro una fossa di terra, e dall’altra, quando ci soffermiamo ad osservare il legno scuro della bara che piano piano scende nel buio, la seppelliamo pure dentro di noi. La seppelliamo nella nostra memoria tattile e nella nostra finita raccolta di ricordi. La seppelliamo, e pace all’anima sua.

Io però non ho seppellito nessuno. Nel momento del bisogno, ovvero quando di vita ancora ce n’era, mi sono tirata indietro: così facendo, io non ho mai dato degna sepoltura al mio amico, né nella terra umida, né nelle mie memorie. Per me è come se lui si fosse cristallizzato, oppure fosse per sbaglio colato nella pece diventando ambra.

Lo vedo ancora a guardare le stelle, la zazzera lunga e scura con la scriminatura centrale: la sensazione che ci debbano essere tuttora cose da dire che ci pesano addosso come un grosso macigno e il troppo freddo che lo fa stringere nella consunta giacca di pelle prima che si ritiri nel calore della sua bella casa sulle colline sono le due cose che fanno infine da corollario a questa mesta scena.

Il senso di colpa mi pesa come se mi avessero appena detto che il mio amico non c’è più, e penso che rendere la morte di qualcun’altro un proprio cruccio sia una delle cose più egoiste che esistano.

All alone you are going down
Do you wonder is there anyone to look for you?

Ævintýr, Sóley

Da quando il mio amico se n’è andato, mi chiedo sempre se sarò mai in grado di aiutare una persona in procinto di affondare. Poi mi rendo conto che io di barche, ma anche di uomini e donne dannate, non ne so molto. Di solito, in realtà, quelli che affondano sono sempre su zattere mal costruite o mal gestite, e mai su battelli con comandi o galeoni con un timone. Quelli rimangono sempre a galla.

Ma quando si tratta di zattere dal legno marcio, la navigazione risulta ancora più difficile per chi non ha dimestichezza delle tecniche del mare. Ciò nonostante, io il mare l’ho visto, anche se di barche non ne ho mai possedute. Mi piace la brezza e mi terrorizza la profondità: accarezzo le onde come fossero gatti che fanno le fusa, ma non ho il coraggio di tuffarmi.

Eppure, considerando questa mia affinità con il mare, non riesco a darmi risposta. Ascolto Sóley e mi dico che sarà per un’altra volta.

“Rien de grave”, ma tutti odiano l’Amore.

Chi mi conosce, sa.

“Sa” che cosa, si chiede chi non mi conosce. E, in effetti, pure quelli che mi conoscono ora si grattano la testa, dubbiosi, cercando di capire che cosa dovrebbero sapere.

Vi aiuto.

Sicuramente, tra qualche tazza di caffè e mezza sigaretta, vi sarete oramai sorbiti una delle mie tante filippiche sul significato dell’esistenza, sul concetto di egoismo in amore e sulle mie assurde teorie riguardanti l’assenza di cambiamento nell’individuo.

Quasi sempre, per vostra sfortuna, vi ho propinato pure‘sto libricino tutto sgualcito ed accartocciato – ‘sto stramaledetto Rien de grave” di Justine Levy, narrandovi dei miracoli narrativi che in me ha suscitato.

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Chi poi lo ha letto, c’è rimasto secco: non ha capito.

Che cazzo ho letto?

Hai letto un bel libro, zio, ma non l’hai capito, e non l’hai capito non perché sei intrinsecamente scemo, ma perché questo libro dai periodi brevi e fondamentalmente depresso non è riuscito ad “arrivarti”.

Scritto nel 2004, “Rien de Grave”, Niente di grave, è duro da mandare giù: quella di Justine Levy è una confessione urgente ed immediata, ma che pur sempre confessione rimane. Proprio per questa sua natura intimisticatroppo intimistica, questo libro crea disagio. Il lettore vorrebbe sbattersene dell’aborto, delle anfetamine e del divorzio, ma Justine glieli butta in faccia senza un attimo di respiro, e anche se lo fa muovendosi velocemente tra una battuta e l’altra, il disagio della confessione si dilata e pare diventare eterno, insopportabilmente eterno.

Quella del lettore diviene un’apnea che pare senza fine; poi arriva l’ultima pagina e tutto passa, eh, ma il danno è ormai fatto.

Il disagio è infatti una componente che permea il lettore così tanto da farlo riflettere e rimuginare, perché in fondo la narrazione stessa, che è senza sconti per l’autrice e protagonista, non ne fa nemmeno al lettore, che inizia a credere che la vita sia spietata, crudele, commovente ed esagerata, e che gli scrittori dovrebbero bersi una camomilla e prendersi un calmante grande come una supposta.

Basta spiluccare il testo per rendersi conto di questo:

Alla fine arriva Pablo e comincio a pensare che forse non sarà come prima. Naturalmente non lo amo. Mi dico che non lo amerò mai, qualunque cosa faccia, qualunque cosa dica, perché l’amore è atroce, perché l’amore finisce sempre un giorno e non voglio più vivere, mai più, la morte dell’amore. Mi dico che non sono abbastanza solida, abbastanza coraggiosa, abbastanza suicida.
Detesto l’amore, ripeto a me stessa. Adrien mi ha guarita definitivamente dall’amore.

Insopportabile, vero?

Quanta arroganza, quanta superficialità, quanto vittimismo.

Eppure, nonostante ciò, qualcuno potrebbe dire che quando una storia finisce male (e un po’ tutte le storie finiscono male), i partner dai quali ci separiamo diventano in un certo senso degli e delle Adrien/ne e noi (molti di noi, per lo meno) diventiamo delle lagne dolenti e, guarda caso, insopportabili. “Ci hanno illuso”, “ci hanno deluso”, e allora noi perdiamo fiducia in noi stessi, negli altri e nella vita: ‘fanculo l’amore, ‘fanculo il “per sempre” delle cose, ‘fanculo tutto. Magari, poi, la cosa è pure ricambiata. Ci si vuole male a vicenda; ci si rinfaccia il dolore quasi con una malcelata soddisfazione.

L’amore così diventa una malattia: una di quelle che prima o poi si supera, ma che ti lascia per un bel po’ con le difese immunitarie di un cadavere. Quando poi passa il tempo, ti ritrovi con degli anticorpi da urlo che ti proteggono dall’influenza amorosa successiva, e al primo accenno di febbre di passione, butti giù un paracetamolo di razionalità e fai finta di niente, perché non c’è niente di grave a non volere più amare. Perché? Perché l’amore ti ha fatto male e tu, in quanto vulnerabile essere umano, ritieni sia giusto il poter tutelare la tua carne e la tua salute mentale da questa malattia così inutile e dannosa.

E hai ragione. Hai ragione a metterla giù così, in questo modo.

Alla fine, però, l’amore, proprio come l’influenza, ha così tanti ceppi che, per quanto uno si possa vaccinare o “fare gli anticorpi”, è inevitabile che si rimanga comunque scoperti a certe sue forme.

Puoi prendere tutto il paracetamolo del mondo, ma alla fine i risultati saranno solo due: o morirai con il sangue avvelenato, o avrai trovato un semplice palliativo che alzerà la tua soglia del dolore. Quello che non avrai raggiunto sarà sicuramente una soluzione, nè mai la raggiungerai. Ce lo dice pure Justine Levy:

È anche questa, la vita. La vita è che un giorno lascerò Pablo, o sarà Pablo a lasciarmi. Preferirei che lui, o qualcun’altro, si stancasse di me, e so che anche in questo caso sarebbe comunque triste, ma almeno non sarebbe tragico. E poi passerà anche la tristezza, come la felicità, come la vita, come i ricordi che cerchiamo di dimenticare per soffrire di meno o che cerchiamo di mescolare con quelli degli altri o con delle bugie.

E poi:

La vita è una bozza. Ogni storia è la bozza della prossima: cancelliamo, cancelliamo, e quando la si è ripulita ed è senza errori, è finita, e non ci resta altro che andarcene. Ecco perché la vita è lunga. Niente di serio.

Picnic at Hanging Rock and How to Narrate (Conventional) Beauty – Part I

[…] What we see and what we seem are but a dream – a dream within a dream.

1975’s ‘Picnic at Hanging Rock’ has been a great inspiration for my writing.
Yes, it’s a movie; yes, there’s also a book worth reading.

However, when your inspiration as a writer comes from more visual perspectives, you yourself tend to become a better narrator, rather than ‘just’ a good writer.

Indeed, your writing flourishes with adjectives and actions: it becomes more and more factual, real.
Even when it plays with fantasy, it brings your imagination back to something more tangible and easier to understand.

I see myself writing with tones of pale pink, white and dark orange; I see myself writing on lace and fresh linen gently touched by a breeze on a rather sunny and chilly day in February.

I see a smartly hidden gore in the eyes of a voluptuous Venus.

All my writing is an illuminating dream of dark textures and crude feelings behind an ivory façade.

– more to come.

E-democracy is a human treasure, but beware of how you use it.

Over the past years, I’ve grown to believe that digital democracy is a human treasure. A dangerous and complicated one, but YES, a freaking H-U-M-A-N  T-R-E-A-S-U-R-E.

Why? Well, I have some points.

First of all, as the past, present and future of human lives is inextricably linked, we cannot deny that everything is connected. In addition, this incredible situation is even more enhanced by nowadays’ information and communication technologies.

Secondly, HSM. Yeah, THIS High School Musical:

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I’m not into all that post-apocalyptic crap that HSM was, OK?

But – and I’m writing a big, fat BUT, if there was something good about it, it was the message delivered by one of its songs:

We are all in this together.

The World is our home and it is an ever-changing one: each individual can have either a positive or a negative role in the World’s shifting, and every single role can be enhanced by our communities, which may indicate us where we should go – together. E-democracy can therefore be the instrument used by our societies to make us think and do something together.

Thirdly, we are nowadays facing an unprecedented crisis of epic proportions. Pick one huge problem and, BOOM, we have it: Climate change, Education disparity, shifting Economy, ongoing Wars and Genocides, Poverty, Pollution, Overpopulation, Mass-migration.

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Basically, the World is a MESS; therefore, I mean, it is so obvious that we need to stick together.

Finally, e-democracy encompasses social, economic and cultural conditions that enable the free and equal practice of political self-determination.

Having been a Vice-President within a local JEF Section, I’ve become quite aware of the growing disconnection of people with politics. Therefore, I have started to believe that the only way to overcome this awful and widespread apathy is to push single individuals towards the Unknown through the use of clear and useful digital tools, making them easily discover by themselves the infinite possibilities democracy has for them.

However, I have to add something else.

Because there is also another thing that we cannot deny: a true democracy is one where every voice matters – EVERY VOICE.

Indeed, democracy is a form of government in which all adult citizens are presumed to be eligible to participate equally in politics and, as all forms of political pluralism, it is a freaking and dangerous mess, ’cause everybody has the right to speak, also those everyone wishes they were born mute.

E-democracy is even worse. It requires removing the barriers that persistently prevent some people from participating in the decisions that rule their lives, with the addition of eroding the digital filters of Social Media and Social Networks.

Some people just cannot stand the huge availability of information without letting in some fake-news and non-sense rants that quickly become viral.

Some people just lack the technological literacy to engage meaningfully online.

Some others cannot tell the difference between online and offline action.

Whatch ’em my very Italian Five Star Movement and League, dudes!

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In addition to all of the above, in the past years we have seen that information and communication technologies have been used also for anti-democratic ends, such as the coercive control of population and the exasperation of populism and demagoguery.

Nations with heavy government censorship have also shown that e-democracy, when triggered, cannot be always utilized to its full extent and, unluckily, can be actually used as an instrument for repression.

No news when I say that modern democracies – when officially called “republics” – are generally more of a bunch of oligarchies where the people elect selected representatives who held all the power; these republics are not true democracies, where the people decide matters directly.

Those democracies are as good as gone.

More precisely, we left those babes down here:

vasco

Yup, that’s right. Just ‘few centuries’ in the past.

Back then, you would say that democracy was a MF easy thing: just few dudes discussing about a bunch of stuff in a very limited space.

However, and I’m sorry to break it to you, but they had WARS, SLAVES and GENDER INEQUALITY, so who fucking cares for easy democracy, when their society was a hot mess?

N E V E R M I N D.

A shift to e-democracy would resemble a change in the form of government as much as an improvement in the existing system, but before, we need to improve the tools used by e-democracy itself, such as high quality news and efficient political debates.

To do so, we need to educate ourselves on engaging meaningfully offline and THEN online. We need to improve our intellectual and practical skills, plus social, economic and political knowledge, in order to make the difference. We need to develop our abilities and debate with one another without bad criticism, but with the curiosity that lays ‘in the eyes of a child’.

At the end, although Internet has several attributes that encourage thinking about it as a democratic medium, e-democracy is still facing challenges and has to deal with a huge variety of problems connected to its pluralistic nature.

That’s why, digital democracy is a human treasure, but we should beware of how to use it before doing anything with it.

OKRRRRR?

The ‘Sea’ is a mf Nøkken

Have you heard Ina Wroldsen new track #SEA from the #HEX EP?

If not, well, you suck.
The song is a jem and her voice – which is also the (uncredited) one in Calvin Harris’ bop ‘How Deep Is Your Love’ – is pure pleasure: Ina is basically a mermaid that will soothe your weary soul with her charming chants.

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Wear your best headphones and get the fuck out of your room: hit the road and preferably head towards the woods or, if you live near the coast, to the sea.

Sit in a quiet spot and press play on Spotify or whatever.

You’ll thank me later.

However, if you’re into visuals, then keep on reading, ’cause I have still some juicy stuff to tell.

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Grab a glass of good wine and sit with your laptop in front of a wonderful view – whether it is a nice piece of ass or a fishermen’s village, it does not matter. This videoclip is an oneiric vision that taps into Norwegian folklore, and, not so surprisingly, Scandinavian aesthetics: it’s a tasty main course for the eyes and it deserves a lush side dish.

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Filmed in Bodø, which is an urban area located just north of the Arctic Circle, this production is a feast for the eyes. It boasts some of Nordland’s impressive natural landscape, including its fjords and forests, as well as the hyper-Scandinavian interiors of Mount Rønvik’s Turisthytta, to create a perfect frame for its storyline.

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Directed by Norwegian genius Thor Brenne, ‘SEA’ is a dark and sexy tale in the snow: it brings to life a deranged dancing Nøkken, a lethal and shape-shifting water spirit that lures humans to drown in the sea, and features some of the best vocals Ina has to offer.

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With a killer hook and an hunting chorus, ‘SEA’ is indeed a spell you’d be eager to fall under.

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n.b. all stills are taken from a preview video of the official videoclip for ‘SEA’.