Books

‘Cause, damn, I read a lot.

 

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“Rien de grave”, ma tutti odiano l’Amore.

Chi mi conosce, sa.

“Sa” che cosa, si chiede chi non mi conosce. E, in effetti, pure quelli che mi conoscono ora si grattano la testa, dubbiosi, cercando di capire che cosa dovrebbero sapere.

Vi aiuto.

Sicuramente, tra qualche tazza di caffè e mezza sigaretta, vi sarete oramai sorbiti una delle mie tante filippiche sul significato dell’esistenza, sul concetto di egoismo in amore e sulle mie assurde teorie riguardanti l’assenza di cambiamento nell’individuo.

Quasi sempre, per vostra sfortuna, vi ho propinato pure‘sto libricino tutto sgualcito ed accartocciato – ‘sto stramaledetto Rien de grave” di Justine Levy, narrandovi dei miracoli narrativi che in me ha suscitato.

https://www.editions-stock.fr/sites/default/files/styles/couv-detail-livre/public/images/livres/couv/9782234056732-T.jpg?itok=v-MBHYow

Chi poi lo ha letto, c’è rimasto secco: non ha capito.

Che cazzo ho letto?

Hai letto un bel libro, zio, ma non l’hai capito, e non l’hai capito non perché sei intrinsecamente scemo, ma perché questo libro dai periodi brevi e fondamentalmente depresso non è riuscito ad “arrivarti”.

Scritto nel 2004 da una donna malata, “Rien de Grave”, Niente di grave, è duro da mandare giù: quella di Justine Levy è una confessione urgente ed immediata, ma che pur sempre confessione rimane. Proprio per questa sua natura intimistica –  troppo intimistica, questo libro crea disagio. Il lettore vorrebbe sbattersene dell’aborto, delle anfetamine e del divorzio, ma Justine glieli sbatte in faccia senza un attimo di respiro, e anche se lo fa muovendosi velocemente tra una battuta e l’altra, il disagio della confessione si dilata e pare diventare eterno, insopportabilmente eterno.

Quella del lettore diviene un’apnea che pare senza fine; poi arriva l’ultima pagina e tutto passa, eh, ma il danno è ormai fatto.

Il disagio è infatti una componente che permea il lettore così tanto da farlo riflettere e rimuginare, perché in fondo la narrazione stessa, che è senza sconti per l’autrice e protagonista, non ne fa nemmeno al lettore, che inizia a credere che la vita sia spietata, crudele, commovente ed esagerata, e che gli scrittori dovrebbero bersi una camomilla e prendersi un calmante grande come una supposta.

Basta spiluccare il testo per rendersi conto di questo:

Alla fine arriva Pablo e comincio a pensare che forse non sarà come prima. Naturalmente non lo amo. Mi dico che non lo amerò mai, qualunque cosa faccia, qualunque cosa dica, perché l’amore è atroce, perché l’amore finisce sempre un giorno e non voglio più vivere, mai più, la morte dell’amore. Mi dico che non sono abbastanza solida, abbastanza coraggiosa, abbastanza suicida.
Detesto l’amore, ripeto a me stessa. Adrien mi ha guarita definitivamente dall’amore.

Insopportabile, vero?

Quanta arroganza, quanta superficialità, quanto vittimismo.

Eppure, nonostante ciò, qualcuno potrebbe dire che quando una storia finisce male (e un po’ tutte le storie finisco male), i partner dai quali ci separiamo diventano in un certo senso degli e delle Adrien/ne e noi (molti di noi, per lo meno) diventiamo delle lagne dolenti e, guarda caso, insopportabili. “Ci hanno illuso”, “ci hanno deluso”, e allora noi perdiamo fiducia in noi stessi, negli altri e nella vita: ‘fanculo l’amore, ‘fanculo il “per sempre” delle cose, ‘fanculo tutto. Magari, poi, la cosa è pure ricambiata. Ci si vuole male a vicenda; ci si rinfaccia il dolore quasi con una malcelata soddisfazione.

L’amore così diventa una malattia: una di quelle che prima o poi si supera, ma che ti lascia per un bel po’ con le difese immunitarie di un cadavere. Quando poi passa il tempo, ti ritrovi con degli anticorpi da urlo che ti proteggono dall’influenza amorosa successiva, e al primo accenno di febbre di passione, butti giù un paracetamolo di razionalità e fai finta di niente, perché non c’è niente di grave a non volere più amare. Perché? Perché l’amore ti ha fatto male e tu, in quanto vulnerabile essere umano, ritieni sia giusto il poter tutelare la tua carne e la tua salute mentale da questa malattia così inutile e dannosa.

E hai ragione. Hai ragione a metterla giù così, in questo modo.

Alla fine, però, l’amore, proprio come l’influenza, ha così tanti ceppi che, per quanto uno si possa vaccinare o “fare gli anticorpi”, è inevitabile che si rimanga comunque scoperti a certe sue forme.

Puoi prendere tutto il paracetamolo del mondo, ma alla fine i risultati saranno solo due: o morirai con il sangue avvelenato, o avrai trovato un semplice palliativo che alzerà la tua soglia del dolore. Quello che non avrai raggiunto sarà sicuramente una soluzione, nè mai la raggiungerai. Ce lo dice pure Justine Levy:

È anche questa, la vita. La vita è che un giorno lascerò Pablo, o sarà Pablo a lasciarmi. Preferirei che lui, o qualcun’altro, si stancasse di me, e so che anche in questo caso sarebbe comunque triste, ma almeno non sarebbe tragico. E poi passerà anche la tristezza, come la felicità, come la vita, come i ricordi che cerchiamo di dimenticare per soffrire di meno o che cerchiamo di mescolare con quelli degli altri o con delle bugie.

E poi:

La vita è una bozza. Ogni storia è la bozza della prossima: cancelliamo, cancelliamo, e quando la si è ripulita ed è senza errori, è finita, e non ci resta altro che andarcene. Ecco perché la vita è lunga. Niente di serio.