Per dire, queste
melodie così liquide e fresche surclassano ancora oggi molte altre
cose che le mie orecchie hanno negli anni udito –
e c’era/c’è forse da aspettarselo?
Quella di Sóley, infatti, è una
poesia lucida che si avvalla di una
musica profonda come gli abissi del mare,
dolce come i flutti lungo
Reynisfjara, e
calda e vaporosa come i fumi dei geyser di
Haukadalur.
Cantautrice e polistrumentista abile, nonché paroliere deliziosa e crudele al contempo, Sóley Stefánsdóttir ha inanellato successi su successi oltreoceano. Qua, in Italia (anche se ora sono nel Regno Unito, ma chissene), ce la siamo filata solo io e un mio amico che scriveva rap truce e che purtroppo ora è sepolto sotto tre metri di terra.
Così va la vita, direbbe Billy Pilgrim in “Mattatoio n.5”.
![872325e702f7c1e653adb5d38ba6c844e6812423](https://alexisfromdablog.wordpress.com/wp-content/uploads/2018/11/872325e702f7c1e653adb5d38ba6c844e6812423.jpg?w=739)
I see my pretty face in his old eyes
I listen to our blood run side by side
I throw my hands to you and run away
It’s so cold, so dangerous that I can’t stay
Pretty Face, Sóley
Il mio amico, tuttavia, non aveva gli occhi di chi ha visto il mondo, ma aveva lo sguardo da ragazzetto che era; poi, spada ficcata su per il braccio, dritta in vena, ha pensato bene di togliersi quel suo sorriso sghembo dal volto. I suoi occhi non sono mai diventati quelli di un adulto.
Quanto è triste questa storia? Non lo so. È difficile quantificare il concetto di tristezza, ma se mi metto una canzone di Sóley sparata nelle orecchie, mi sembra di potercela fare.
La tristezza diventa una nota stridula, un controtempo, o un vocalizzo trascinato su e giù per scale infinite. Io sto lì, pensierosa, e senza troppe cerimonie mi lascio cascare una lacrima tonda e salata da un angolo dell’occhio e la lascio fare: quella solca le piccole alture del mio volto, fino a giungere al delta delle labbra.
We will put her in two graves
Side by side
We Will Put Her In Two Graves, Sóley
Ha ragione Sóley: una volta che una persona muore, la seppelliamo in due posti diversi, uno affianco all’altro. Da una parte, la caliamo dentro una fossa di terra, e dall’altra, quando ci soffermiamo ad osservare il legno scuro della bara che piano piano scende nel buio, la seppelliamo pure dentro di noi. La seppelliamo nella nostra memoria tattile e nella nostra finita raccolta di ricordi. La seppelliamo, e pace all’anima sua.
Io però non ho seppellito nessuno. Nel momento del bisogno, ovvero quando di vita ancora ce n’era, mi sono tirata indietro: così facendo, io non ho mai dato degna sepoltura al mio amico, né nella terra umida, né nelle mie memorie. Per me è come se lui si fosse cristallizzato, oppure fosse per sbaglio colato nella pece diventando ambra.
Lo vedo ancora a guardare le stelle, la zazzera lunga e scura con la scriminatura centrale: la sensazione che ci debbano essere tuttora cose da dire che ci pesano addosso come un grosso macigno e il troppo freddo che lo fa stringere nella consunta giacca di pelle prima che si ritiri nel calore della sua bella casa sulle colline sono le due cose che fanno infine da corollario a questa mesta scena.
Il senso di colpa mi pesa come se mi avessero appena detto che il mio amico non c’è più, e penso che rendere la morte di qualcun’altro un proprio cruccio sia una delle cose più egoiste che esistano.
All alone you are going down
Do you wonder is there anyone to look for you?
Ævintýr, Sóley
Da quando il mio amico se n’è andato, mi chiedo sempre se sarò mai in grado di aiutare una persona in procinto di affondare. Poi mi rendo conto che io di barche, ma anche di uomini e donne dannate, non ne so molto. Di solito, in realtà, quelli che affondano sono sempre su zattere mal costruite o mal gestite, e mai su battelli con comandi o galeoni con un timone. Quelli rimangono sempre a galla.
Ma quando si tratta di zattere dal legno marcio, la navigazione risulta ancora più difficile per chi non ha dimestichezza delle tecniche del mare. Ciò nonostante, io il mare l’ho visto, anche se di barche non ne ho mai possedute. Mi piace la brezza e mi terrorizza la profondità: accarezzo le onde come fossero gatti che fanno le fusa, ma non ho il coraggio di tuffarmi.
Eppure, considerando questa mia affinità con il mare, non riesco a darmi risposta. Ascolto Sóley e mi dico che sarà per un’altra volta.